La bioeconomia italiana c’è, ha tratti di eccellenza ed è sparsa su tutto il territorio nazionale. Attende che anche il governo nazionale e le Regioni giochino la propria parte, fornendo in primo luogo un quadro legislativo coerente e stabile, finanziando la ricerca e sostenendo la domanda di prodotti innovativi. È questo il messaggio che arriva da Milano, dove il 23 e 24 ottobre si è tenuta la seconda edizione del Forum italiano per le biotecnologie industriali e la bioeconomia, organizzato da Assobiotec, Innovhub-SSI e il Consorzio italiano per la biocatalisi.
Abbiano il nome di grandi gruppi industriali come Eni, Novamont e Mossi & Ghisolfi, o delle più importanti università e centri di ricerca, gli attori italiani della bioeconomia concordano sulla grande opportunità che questa nuova economia basata sull’utilizzo delle risorse biologiche può offrire all’Italia per coniugare crescita economica, sviluppo sostenibile e creazione di nuovi posti di lavoro.
“La chimica italiana non ha nulla da invidiare agli altri paesi – sostiene Guido Ghisolfi, presidente della Chemtex Italia, una società del gruppo piemontese Mossi & Ghisolfi – siamo secondi solo alla Germania in Europa. Ma oggi grazie alla bioeconomia quelli che sono stati storicamente dei punti di debolezza dell’Italia nel settore chimico possono trasformarsi in fattori di forza. Un esempio? La chimica italiana è stata sempre accusata di essere troppo sparsa sul territorio, adesso, con l’esigenza di creare bioraffinerie diffuse per soddisfare la domanda energetica locale, questo può trasformarsi in un fattore critico di successo”.
Intanto, a Crescentino, in Piemonte, il Gruppo M&G ha da poco avviato l’attività della propria bioraffineria per biocarburanti di seconda generazione. Si raffina la zucchero per fare biocarburanti a costi più bassi di quanto costa sul mercato brasiliano. “Abbiamo venduto la nostra tecnologia (Proesa, ndr) che serve a questo processo anche ai brasiliani. Considerato che il Brasile è il primo produttore mondiale di canna da zucchero, è un po’ come vendere il ghiaccio agli eschimesi”, dice Ghisolfi.
Bioeconomia significa anche riconversione di impianti industriali dismessi, con ricadute significative in campo occupazionale. In questo senso, Novamont, la società novarese guidata da Catia Bastioli, sta svolgendo un ruolo di primissimo piano in Italia. A Porto Torres, insieme a Versalis, ha avviato sul terreno di una ex raffineria dell’Eni una bioraffineria per la produzione di bioplastiche. A Terni, ha rilevato uno stabilimento dismesso di Lyondell-Basell per la produzione di bioplastiche e biolubrificanti. A San Marco Evangelista, in provincia di Caserta, ha rilevato uno stabilimento di Sigma Tau per farne un centro di ricerca biotecnologica. Altri impianti sono presenti nel Veneto e nel Lazio.
“L’Italia – ne è fortemente convinta Catia Bastioli – può vincere questa nuova sfida della bioeconomia. Abbiamo capacità e competenze di primissimo livello, che ci devono spingere a dare piena attuazione agli obiettivi fissati con la Strategia europea per la bioeconomia, lanciata lo scorso febbraio dalla Commissione europea”.
Abbiamo competenze di primissimo livello e diffuse. A Milano sono stati presentati una settantina di progetti di ricerca sul biotech con potenzialità di applicazione per la bioeconomia. È il caso della Protein Factory, che ha illustrato come piante di erba medica hi-tech proteggeranno come le colture biologiche dall’invasione degli erbicidi delle coltivazioni vicine e permetteranno di bonificare i terreni agricoli dall’accumulo di queste sostanze. A sviluppare la super erba medica sono stati i ricercatori del centro di ricerca, una vera e propria ”fabbrica delle proteine”, nato dalla collaborazione tra università dell’Insubria di Varese, Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr) e Politecnico di Milano. L’erba medica hi-tech non solo è resistente al più diffuso degli erbicidi, il glifosate, ma è addirittura capace di degradarlo, ripulendo così i terreni agricoli. Il segreto sta in un enzima “mangia-erbicidi”, chiamato glicina ossidasi, che gli stessi ricercatori della ”fabbrica delle proteine” hanno sviluppato in laboratorio a partire da un enzima del batterio Bacillus subtilis.
I primi test condotti in laboratorio sono stati positivi. ”Abbiamo verificato che la pianta resiste perfettamente all’erbicida e nel giro di un paio di mesi è in grado di eliminarne ogni traccia”, spiega Loredano Pollegioni, direttore del Centro e docente di biochimica all’Università dell’Insubria. ”Al momento non è possibile fare esperimenti sul campo – aggiunge – ma pensiamo che in futuro la pianta potrà essere usata sia per bonificare i terreni dall’accumulo di glifosate, sia per creare un argine intorno alle coltivazioni bio in modo che non vengano contaminate dagli erbicidi dei vicini”.
E ancora: la Promis biotech, uno spin-off della Facoltà di Agraria dell’Università di Foggia, ha presentato un progetto basato su batteri, lieviti e muffe ‘Doc’ per migliorare la produzione di alimenti fermentati tipici della gastronomia italiana e fortemente legati al territorio, come vino, aceto, pane e formaggio.
Dall’agro-alimentare, alla chimica-farmaceutica, al comparto energetico e a quello ambientale. Le applicazioni biotecnologiche per sviluppare la bioeconomia italiana, mostrate a Milano, sono diverse e di altissimo livello.
Manca una strategia nazionale che la sostenga, è il grido di allarme che arriva da Milano. Se la Commissaria europea alla Ricerca, Innovazione e Scienza, Maire Geoghegan-Quinn, ha inviato un proprio messaggio di sostegno e vicinanza, da Roma, e dai ministeri della Ricerca e dell’Ambiente in particolare, nulla da segnalare.
Mario Bonaccorso
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